Con l’avvento della pandemia da Covid Sars – 19, notevoli sono state le difficoltà anche in ambito giuridico relativamente alle questioni contrattuali che maggiormente hanno caratterizzato questo ultimo anno e mezzo. Il riflesso economico naturalmente negativo che lo stato emergenziale ha portato con sé non poteva di certo risparmiare le piccole aziende, le associazioni delle categorie di lavoratori maggiormente colpiti (artisti, operatori del turismo) oltre che i tanti conduttori con preesistenti difficoltà economiche che si sono ritrovati spesso, se non sempre, a dover cercare un dialogo, a volte difficile, con i locatari.
I rimedi messi in campo dai governi succedutisi hanno alleggerito temporaneamente il peso del canone ma, come è facile intuire, non potevano né hanno risolto l’annoso ed angusto problema degli arretrati. Se da una parte vi sono stati conduttori agevolati dalla congenita inclinazione alla mediazione squisitamente commerciale, perciò in grado di pattuire riduzioni e compensazioni con crediti d’imposta, d’altro canto i più sfortunati si sono ritrovati di fronte a rigidi ed insipidi proprietari tarati da preconcetti culturali che non ammettono rinegoziazioni od aperture di alcun genere.
Nello specifico, al netto di quello che possono essere le considerazioni personali più o meno condivisibili, i rimedi giuridici contenuti nell’ inconsapevole codice civile sono utili e necessari in una situazione che potrebbe essere definita, in maniera del tutto opportuna, di impossibilità sopravvenuta temporanea. Ed allora, come affrontare il tema locazioni?
Il soccorso datoci dal codice civile riguarda principalmente il rimedio dettato dall’art. 1256 c.c. secondo comma, a tenore del quale il debitore non è responsabile del ritardo per tutto il tempo in cui la prestazione è temporaneamente impossibile, ma “l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione ed alla natura dell’oggetto, il debitore non può più essere ritenuto obbligato ad eseguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”. Ciò comporta l’applicabilità dell’art. 1463 c.c. ai sensi del quale “la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta”. In siffatta ipotesi l’obbligazione contrattuale si estingue e dunque la volontà del conduttore deve anche porsi favorevolmente rispetto a questa prospettiva.
Stessa sorte qualora si opti per l’applicazione della fattispecie di cui all’art.1467 c.c. che prevede l’ipotesi della risoluzione contrattuale allorquando si verifichino avvenimenti “straordinari ed imprevedibili”che rendano la prestazione di una delle parti eccessivamente onerosa. Uno spiraglio di trattativa viene riportato al 3° comma dello stesso articolo ove si prevede la possibilità per la parte alla quale è domandata la risoluzione di evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto. La ragione di tale ultimo comma va ricondotta sicuramente all’intento di riequilibrare il sinallagma contrattuale fortemente alterato dagli “avvenimenti straordinari ed imprevedibili” al fine evidente di conservare il contratto.L’attenzione però va sicuramente posta sulla natura di quest’ultimo comma, sulla possibilità di modificare le condizioni contrattuali che non può inquadrarsi come un obbligo ma bensì, a parere dello scrivente, deve essere interpretato secondo il principio della buona fede (ed anche del buon senso, se mai non bastasse).
Ed allora, considerando che i rimedi giuridici finora esemplificativamente indicati nulla garantiscono in merito alla possibilità di rinegoziare le condizioni del contratto in tempi di pandemia, come e con quali strumenti garantire la conservazione del contratto?
L’inconsapevole codice civile, purtroppo, non dà una risposta a questo arduo quesito. Vero è che la profluvie normativa innescata dalla pandemia ha comunque introdotto riferimenti normativi con basi più o meno nobili ma applicazioni ed interpretazioni alquanto complesse e senza dare, in verità, alcun reale aiuto. Basti pensare che l’art. 91 D.L. 17 marzo 2020 s.m.i., n.18, disponeva tra l’altro: “All’articolo 3 del d.l. 23 febbraio 2020 n.6 (…) dopo il comma 6, è inserito il seguente: 6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui il presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”. Dunque, il rispetto delle misure di contenimento deve e può essere perimetrato nell’ambito della responsabilità e non assurge, invece ed in maniera automatica, ad una completa esimente.
In definitiva ed in maniera piuttosto cinica, salvo discutere del merito della questione relativa alla opportunità di considerare e valutare la cd. Impotenza finanziaria alla stregua dell’impossibilità oggettiva della prestazione[1], al fine della conservazione del contratto nel contesto distruttivo dell’emergenza pandemica, è più opportuno (e quasi imprescindibile) fare appello al principio di buona fede piuttosto che al rigore giuridico.
[1] Orientamenti giurisprudenziali maggioritari considerano il danaro un bene generico e imperituro (genus numquam perit) e pertanto non corrispondente alla fattispecie della impossibilità oggettiva sopravvenuta.